Il Sat, 22 Jan 2005 09:32:19 +0100, Gianluca Turconi
Post by Gianluca TurconiIo aspetto fiducioso... ;-)
Eccomi qui. Posto direttamente sul newsgroup sperando che il testo
(nb: ricopiato a mano, chiedo scusa per gli inevitabili errori) possa
servire anche ai posteri. Una parte di quello che ho trascritto non è
del tutto inerente alle ferite da frecce ma mi auguro possa comunque
interessare.
Consiglio in ogni caso il libro di Settia: IMO è molto chiaro,
abbastanza approndito e costa poco (che non guasta mai).
Approfitto per una domanda: per caso qualcuno sa cosa sia un dardo
munito di "barbe"?
Avvertenza: articolo da leggere LONTANO dai pasti
Da "Rapine, assedi, battaglia. La guerra ne Medioevo", Settia, Laterza
2.2 L'insidia delle frecce
Procopio ci ha lasciato memoria di certe ferite, a loro modo curiose e
spettacolari, toccate a corazzieri e scudieri di Belisario durante la
guerra greco-gotica. Gli arcieri goti colpirono Cutila e Arze, l'uno
in mezzo al capo e l'altro fra il naso e l'occhio destro, ma non per
questo essi interruppero l'azione; infine, tornando entrambi con la
freccia infitta nella ferita che tremolava sulla testa, e i loro
compagni <<erano stupiti dal fatto che seguitasseo a cavalcare senza
curarsi del male>>. Nello stesso giorno il massageta Boca, già ferito
in un'azione precedente, si trovò circondato da una dozzina di nemici
con le lance puntate che lo colpivano tutti insieme: <<La corazza
resisteva e le ferite non gli facevano troppo male>>, sinchè uno di
essi non lo aggredì da tergo <<indovinando un punto scoperto del corpo
sopra l'ascella destra vicino all'omero>>, e un altro <<ficcandogli la
punta nella coscia sinistra, recise il muscolo>> con un colpo obliquo,
ma Boca fu subito soccorso e portato in salvo.
Appena tornati, tutti e tre i feriti furono sottoposti a cura: i
medici esitarono a intervenire su Arze <<per timore di perforare le
membrane e i nervi>> e procurarne così senz'altro la morte, sinchè il
medico Teocnisto <<facendo pressione da dietro sul collo, gli chiese
se dolesse. Quello rispose di sì, e l'altro "Benissimo, ti salverai e
non sarà lesa neppure la vista". Tagliò la parte dello strale che
sporgeva e la buttò via, poi, divaricando la massa muscolare nel punto
più dolente, ne estrasse senza sforzo la cuspide che sporse con tre
punte aguzze e si portò dietro la parte restante del dardo. Così Arze
fu completamente guarito; non gli rimase neppure sul viso la
cicatrice.>>
I suoi compagni non se la cavarono altrettanto bene; quando a Cutila
fu estratta l'asticciola, penetrata più profondamente, egli svenne; in
seguito gli si infiammarono le meningi e in breve tempo morì. Anche
Boca, colto da una forte emorragia, morì tre giorni dopo. Singolare
fu, in seguito, la vicenda del corazziere Traiano, a sua volta colpito
in azione da una freccia: <<Tutto il ferro si conficcò dentro e non si
vedeva affatto di fuori, sebbene vesse una cuspide grande e
lunghissima, la parte restante del dardo cadde subito a terra senza
che nessuno la spezzasse, forse perchè il ferro non vi era attaccato
bene. Traiano tuttavia non si accorse di nulla e seguitò a uccidere e
inseguire i nemici come se niente fosse.>> Solo cinque anni dopo
<<l'estremità del ferro cominciò a sporgere sul volto da sè, e da tre
anni viene sempre un po' più fuori. E' verosimile - conclude Procopio
- che fra un bel pezzo tutta quanta la cuspide uscirà fuori. A lui
comunque non è venuto nessun fastidio.>>
Gli epidosi riportati, sia pure solo per la loro curiosità, ettono in
evidenza l'efficacia e la pericolosità degli arcieri goti, lasciano
intendere che i cavalieri bizantini agivano probabilmente senza
un'adeguata protezione del capo e mostrano l'importanza e i limiti
della corazza nel proteggere il corpo contro le ferite di lancia. Il
servizio sanitario è in condizione di intervenire rapidamente ma i
chirurghi, per quanto abili, si mostrano impotenti davanti al
sopravvenire di complicazioni.
Le fonti scritte del pieno Medioevo occidentale, al contrario di
Procopio, sono piuttosto riluttanti a parlare delle ferite inferte ai
cavalieri dalle armi da getto, caso che doveva invece essere
frequantissimo soprattutto negli scontri collettivi e durante gli
assedi. Almeno dall'XI secolo in poi, quando venne incrementandosi
l'uso della balestra, gli effetti delle frecce dovevano essere spesso
letali nonostante la protezione della corazza, e non troppo diversi
erano quelli dell'arco composito che gli Occidentali sperimentarono su
di sè durante la prima crociata.
[...]
2.3 Chirurgie di guerra
Chirurghi famosi si impegnarono per mettere a punto metodi appropriati
per l'estrazione delle frecce e per la cura dei loro effetti
lasciandone ampia traccia nella trattatistica dei secoli XII e XIII,
segno sicuro, questo, se altri non vi fossero, dell'importanza assunta
da tali ferite, specialmente quando riguardavano il volto. <<Se
qualcuno è colpito da un dardo sulla faccia - dice la Practica
chirurgiae di Ruggero de Frugardo, composta fra 1170 e 1180 -
attraverso le narici o presso l'occhio o nella guancia o in altra
parte, sì che il ferro si trova entrato in profondità o è penetrato in
angusti, sottili e tortuosi meati, sebbene l'estrazione sia difficile
cosa, ciascuno solleciti il proprio ingegno e pensi a fondo in qual
modo possa estrarlo; e se il ferro avrà del legno, si metta una fascia
presso il legno fino al ferro attraverso la ferita medesima; e se
risulta che il legno è ben congiunto al ferro, si smuova un pochino a
brevi tratti, e anche stringendo piano piano, si smuovano legno e
ferro, e così con cautela si estraggano. Se il ferro non avrà legno,
saputo dal paziente come e in qual modo si trovava quando fu colpito,
cioè se da sopra o da sotto, di fronte o di fianco, si introduca una
"lista" attraverso la ferita, e conosciuto il tragitto del ferro, se
si può lo si estragga e se non si potrà estrarre senza molestia è
meglio che si lasci: molti infatti vissero con un ferro in corpo.>>
Ancora maggiore cautela occorre se si tratta di dardi muniti di
<<barbe>>, e gravi risultano in ogni caso le perforazioni del cranio
ritenute tuttavia curabili, a meno che non compaiano nel ferito segni
mortali e se entro sei o sette giorni si manifestino <<buoni segni>>.
Dalla faccia e dal capo i trattati di chirugia passano a esaminare le
ferite da fraccia nelle altre parti del corpo via via scendendo sino
ai piedi: mortale è giudicata di solito la ferita alla gola.
Consigli simili espongono nella seconda metà del XIII secolo i
trattati chirurgici di Rolando da Parma, Teodorico da Lucca e
Guglielmo da Saliceto, nè manca al riguardo l'iconografia: la
tappezzeria di Bayeux ci mostra Aroldo d'Inghilterra nel momento in
cui a Hastings riceve la freccia mortale in un occhio; il Libero in
honorem Augusti di Pietro da Eboli raffigura il ferimento del conte
Riccardo di Acerra avvenuto nel 1191 durante l'assedio di Napoli:
mentre si sporgeva dalle mura egli ebbe appunto la faccia trapassata
da una guancia all'altra; segue la scena in cui un chirurgo, assistito
da due donne che reggono piatti e ampolle, impugna la freccia per
estrarla dalla ferita. Lo stesso autore mostra in seguito il momento
in cui a Salerno proiettili di balestra scagliati dal basso si
infiggono negli elmi dei difensori corazzati affacciati alle mura. La
Chirurgia di Rolando da Parma presenta una miniatura in cui un
chirurgo munito di pinze estrae una freccia dal capo di un paziente.
Teodorico da Lucca distingue l'estrazione delle frecce a seconda del
tipo e della forma: punta grande o piccola, concava o smussata,
biangolare, triangolare o quadrangolare, e a seconda che colpiscano
cervello, cuore, fegato, polmoni, reni, stomaco, vescica, intestino e
schiena, con i relativi effetti avvertendo che se si scorgono sintomi
di morte, <<dovrete guardarvi dall'estrarre la freccia dato che di
solito, dopo l'estrazione, il ferito muore immediatamente>>.
L'estrazione può porre gravi problemi, si usi o no un apposito
speciale forcipe, specialmente se il proiettile è infitto in un osso.
<<Ho visto spesso due uomini forti faticare per estrarre una freccia
senza peraltro riuscirci>>; in questo caso sarà opportuno lasciarla
sinchè si decide a uscire da sola. Tal altra volta - aggiunge il
chirurgo, domenicano e poi vescovo - è consigliabile inginocchiarsi,
recitare tre volte i Pater noster e poi afferrare la freccia dicendo:
<<Nicodemo estrasse i chiodi dalle mani e dai piedi di nostro Signore
e perciò così questa freccua fuoriesca>>. Ed essa uscirà, si
garantisce.
Largo spazio alle ferite da freccia è dedicato anche nella Chirurgia
di Gugliemo da Saliceto che tratta a lungo e analiticamente
dell'estrazione e della cura riferenzo inoltre alcuni precisi casi
clinici. Per il fratello di Enrico Cinzario di Cremona, colpito da una
freccia al collo con paralisi totale di tutto il corpo al di sotto
della lesione, aveva già espresso ai parenti una prognosi mortale, ma
il ferito si ristabilì e potè poi camminare con due bastoni per altri
dieci anni. Gabriele di Prolo, sempre di Cremona, cui una freccia di
arco aveva perforato una gamba sino all'osso rimase <<quasi morto>>
per un mese e poi anch'egli guarì. Al contrario, Bonifacio, nipote del
marchese Uberto Pelavicino, colpito da una piccola freccia alla gola
da cui uscì appena una goccia di sangue - racconta Guglielmo - <<morì
in un'ora in mia presenza>>, non per veleno, come aveva creduto in un
primo momento, ma per sopraggiunge complicazioni ai polmoni. A un
soldato di Bergamo, colpito alla gola da una grossa freccia che lo
perforì fino alla scapola sinistra, Guglielmo stesso, allora molto
giovane e partecipante all'esercito, estrasse di sua mano il
proiettile <<con i soliti mezzi>>; il ferito guarì perfettamente e
visse a lungo. Il medesimo felice risultato ottenne infine su un
<<uomo piemontese>> che ebbe lo stomaco trapassato sino alla schiena
da una grande freccia e venne curato <<per mezzo di abluzioni di solo
vino fatte assiduamente>>.
In generale le trattazioni non fanno troppa differenza tra le lesioni
provocate da freccia, da spada, o <<da altra arma simile>>
distinguendo piuttosto tra le ferite curabili e no: le lesioni al
cranio per freccia, spada, percossa o cadura, anche senza apparente
frattura, possono provocare il delirio sicchè - scrive Ruggero de
Frugardo - il paziente <<immagina di combattere col nemico, e così
dormendo si alza, prende le armi adoperandole come se fosse sveglio>>.
Le ferite al collo sono certamente incurabili quando <<il midollo
fuoriesce dall'osso>, e in generale se la ferita è rotonda è più
difficile e lenta da guarire, ma Teorodico da Lucca, basandosi
sull'esperienza fatta dal suo maestro Ugo, propone di curare tutte le
ferite soltanto con il vino e con le bende: <<Il vino è la migliore
medicina e penetra in esse>>; nè esita a riattaccare un nas da poco
<<tagliato da una spada o altra arma simile, così che esso penzoli>>:
procedendo con cautela e circospezione si dovrà <<rimetterlo nella sua
posizione corretta e poi ricucirlo immettendo nelle narici rotolini di
garza imbevuti di vino caldissimo.>>
Le ferite che raggiungono gli intestini con fuoriuscite della materia
nella cavità addominale quasi inevitabilmente provocavano la
peritonite, ma Guglielmo da Saliceto, afferma di aver curato
felicemente un soldato di Pavia, di nome Giovanni Bredella, feritosi
al ventre con un coltello così che <<gli intestini uscirono feriti
secondo la lunghezza e la larghezza>>. Dopo averli bagnati nel vino
caldo, li lavò e quindi - racconta - <<ho avvicinato e cucito le parti
di intestino con la sutura dei pellettieri>> spargendovi in quantità
la polvere fina, conservativa; quando la ferita si chiuse vi applicò
<<giallo d'uovo, olio rosato e un po' di zafferano>>. L'uomo non solo
guarì, ma visse a lungo, si sposò ed ebbe figli.
Alle ferite consuete nello scontro tra cavalieri, armati di lancia e
spada, occorre aggiungere le conseguenze dei frequenti
disarcionamenti: la caduta da un cavallo lanciato al galoppo
comportava facilente nel cavaliere rivestito di armatura fratture o
lussazioni delle spalle, degli arti superiori e inferiori, della
clavicola e delle costole, tutte lesioni assai gravi che potevano
tuttavia essere curate con un certo successo. Poche speranze
lasciavano invece le lesioni alla colonna vertebrale: <<Se le vertebre
del collo e del petto si lussano - avverte Guglielmo da Saliceto - è
da temere quasi sicuramente la morte immediata>>; al contrario, quando
la lussazione riguarda solo le vertebre corrispondenti alle costole e
ai reni, un abile medico può utilmente intervenire purchè con
immediatezza; se tutto va bene dopo cinque giorni, sciolti i bendaggi,
il ferito potrà addirittura ritornare lentamente alla vita normale.
Ciao, F.
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